È nell’esperienza di tutti quanto la tecnologia sia entrata in ogni aspetto della nostra vita, costituendo spesso un prezioso alleato.
Molto spesso viviamo con la tecnologia in maniera talmente simbiotica che siamo portati ad abdicare parte della nostra esperienza diretta a favore delle performance dei device. Ebbene quali sono le competenze che dovremmo allenare per far fronte a questa sempre più costante connessione con la tecnologia?
Lo scrittore di fantascienza Philip Dick ha detto che “le finte realtà creeranno finti esseri umani”.
È importante tenere sempre sveglia e attiva la nostra consapevolezza.Per capire il futuro e ciò che non siamo ancora in grado di immaginare nitidamente probabilmente dovremmo essere tutti un po’ degli autori di fantascienza, con la loro capacità di guardare con distacco al presente, quel distacco che ha consentito a scrittori come Huxley, Orwell e Dick di analizzare con creatività la realtà circostante e immaginare i suoi possibili risvolti. Si può partire dalle loro estremizzazioni per mettere a fuoco alcune conseguenze psicologiche che potrebbero entrare in gioco nel futuro.
Questi autori hanno disegnato mondi distopici, ossia hanno messo l’accento sui rischi a cui la civiltà può andare incontro – con una bella dose di fantasia! Confrontiamo le loro visioni, tutte con un tratto in comune: l’utilizzo della tecnologia per modificare il contesto sociale.
Aldous Huxley ne “Il mondo nuovo” parla di una società globale sotto il controllo di un unico governo planetario, all’interno del quale vige un progetto antropologico che si prefigge l’eliminazione di ogni forma di dolore, di privazione, di sacrificio, per rendere il piacere immediatamente accessibile e fruibile in ogni momento da tutti. Quello disegnato da Huxley è un mondo in cui non c’è bisogno della dittatura per tenere a bada le persone; per mantenerne il controllo è invece molto più utile dare loro tutto quello che vogliono: “Devi insegnare alla gente ad amare la propria servitù”, disse lo stesso Huxley.
Se ci riflettiamo la tecnologia, almeno così come raccontata nello storytellingcomune, è diventata quasi sinonimo di soddisfazione immediata e sempre disponibile, purché ci sia un collegamento internet. Un qualsiasi device che portiamo con noi è l’evoluzione della lampada di Aladino: pronto a realizzare i nostri desideri, che una volta erano massimo tre, poi sono diventati illimitati grazie agli abbonamenti flat.
Nel Disagio della civiltà, Freud scriveva che “L’uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua felicità per un po’ di sicurezza”. In società con cambiamenti sempre più frequenti il tema della sicurezza è diventato ancora più sensibile.
George Orwell, con il best seller 1984, è sicuramente da considerarsi un altro autore di fantascienza che ha descritto con lucidità molti aspetti della nostra realtà attuale. Nel suo romanzo la società è governata da un onnipotente partito unico con a capo il Grande Fratello, un personaggio che nessuno ha mai visto di persona e che tiene costantemente sotto controllo la vita di tutti i cittadini, tramite l’utilizzo capillare di telecamere.
Dal punto di vista psicologico sono tre i principali meccanismi attraverso i quali il Grande Fratello otterrebbe il controllo delle masse: la promozione del bispensiero, l’istituzione di una neolingua e il controllo delle informazioni.
1. Bispensiero è un termine coniato da Orwell. Esprime la volontà e la capacità di sostenere un’idea e il suo opposto. Ossia mette le persone in condizione di essere pronte, in ogni momento, a recepire qualsiasi verità venga prospettata loro. Sulla facoltà di pensiero tutto ciò avrebbe l’effetto di erodere la capacità di giudizio e conseguentemente predispone a considerare attendibile qualsiasi informazione si riceva. Questo meccanismo è all’attenzione di tutti oggi, si pensi al fenomeno delle fake news e alla cosiddetta post-verità. La possibilità di verificare la veridicità delle informazioni che vengono fornite verrebbe praticamente azzerata e varrebbe tutto e il contrario di tutto.
2. L’istituzione di una neolingua ha l’obiettivo di ridurre e inaridire il pensiero attraverso l’utilizzo di un linguaggio semplificato. La neolingua di 1984 aveva la caratteristica di cancellare dal vocabolario i sinonimi delle parole, in modo da ricorrere a poche, chiare e semplici categorie di pensiero e limitare la descrizione delle sfumature. La stessa sorte destinata ai sinonimi veniva riservata agli antonimi, ai contrari, che per loro natura possono dare voce e forma alle situazioni conflittuali. L’ambivalenza, anche quella espressa nel linguaggio da due termini contrapposti, genera sempre ansia e incertezza ed è per questo che tendiamo spesso a risolverla facendoci un’idea definitiva. Però le situazioni ambivalenti ci obbligano a compiere una ginnastica mentale salutare e ci incoraggiano (se abbracciamo l’ambivalenza, invece che negarla) a sviluppare una più profonda comprensione della realtà, delle alternative possibili e di noi stessi. Rispetto al tema della semplificazione del linguaggio si pensi a come oggi le immagini abbiano sostituito la scrittura, oppure all’utilizzo massiccio di emoji nei testi dei messaggi.
3. L’ultimo pilastro del paranoico governo di Orwell è rappresentato dal controllo delle informazioni. In 1984 esisteva un’unica fonte centralizzata che manipolava le masse attraverso la censura. Qui c’è la più grande differenza tra la società contemporanea e quella di 1984: l’uomo moderno dispone di fin troppe informazioni, siamo nell’epoca del cosiddetto sovraccarico cognitivo (information overloading). Diventerà sempre più distintiva la capacità di saper trovare le giuste informazioni, muovendoci in modo consapevole tra varie fonti, analizzando e applicando i filtri che consentono di escludere i dati giudicati meno attendibili.
Il sociologo Neil Postman scriveva: “Orwell temeva che i libri sarebbero stati banditi; Huxley non che i libri fossero vietati, ma che non ci fosse più nessuno desideroso di leggerli. Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato delle informazioni; Huxley quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di schiavi; Huxley che sarebbe stata una cultura cafonesca, ricca solo di sensazione e bambinate”.
È come trovarsi su una barca in alto mare, le cui impetuose correnti sono il flusso enorme di dati erogati dalla tecnologia. Se ci si ferma per riposare, la corrente ci porta verso mondi dove prevale la semplificazione delle cose, al contrario se si fatica e ci si sforza di remare ci possiamo orientare verso lidi dai quali è possibile vedere il mondo nella sua complessità e anche più chiaramente dentro di noi.
In questa dialettica con la tecnologia c’è da comprendere quale sia lo spazio per la nostra dimensione umana. Ci si potrebbe chiedere: cosa ci rende davvero umani?
C’è una cosa che impariamo fin dalla nascita nella relazione con l’altro.
Christian Keysers è uno scienziato che ha fatto parte del gruppo di ricerca dell’università di Parma con a capo Giacomo Rizzolatto, i cui studi hanno fornito contributi fondamentali per la definizione del funzionamento neuronale dell’empatia.
Quando prendiamo un caffè al bar nel nostro cervello si “accendono” (tecnicamente si dice “scaricano”) determinati neuroni. Oggi, dagli studi, ormai arcinoti, sui neuroni specchio sappiamo che gli stessi neuroni si attivano anche solo se vediamo qualcun altro prendere un caffè. Ciò implica che possiamo capire quello che fanno gli altri sfruttando risorse neurali che usiamo quando facciamo noi la stessa cosa. Potremmo dire che “ci mettiamo nei neuroni dell’altro”.
A partire da questa scoperta, Keysers ci ha mostrato un esperimento interessante che fa un passo in avanti. Registrando in laboratorio l’attività cerebrale di un soggetto che osserva una persona muovere il braccio, si verifica l’attivazione della stessa area neuronale deputata al movimento del proprio arto superiore (in linea con i risultati già noti). Quindi in termini di scarica neuronale azione e osservazione determinano la stessa attivazione. Ma cosa succede se il braccio in questione è il braccio non di un’altra persona ma di un robot? Ebbene: nel cervello dell’osservatore si attivano gli stessi neuroni specchio!
La conseguenza è che, almeno tecnicamente, potremmo provare empatia per le macchine.
Questo ci porta all’ultimo degli autori di fantascienza di questa panoramica, forse il più suggestivo perché meglio di tutti gli altri ha trattato questa sfera in cui il sentire umano e il sentire della macchina si intersecano. Stiamo parlando di Philip Dick. Dick ha visto un mondo parallelo al nostro dove i soggetti (gli umani) e gli oggetti – tecnologici – condividono sentimenti e dubbi esistenziali.
Per Dick il tema della realtà e dell’illusione è stato molto caro, tutta la sua narrativa è fondata su due domande fondamentali: “che cosa è reale?” e “che cosa è umano?”. Nel celebre romanzo Il cacciatore di androidi (traduzione dal suggestivo titolo originale Ma gli androidi sognano pecore elettriche?), da cui è stato tratto l’iconico film di Ridley Scott Blade Runner, il tema più significativo è la difficoltà di discernere tra essere umano e androide. Ma non perché gli ultimi saranno sempre più capaci di svolgere funzioni umane. Dalla convivenza tra uomo e replicante emerge che l’uomo fa sì di tutto per rendere sempre più umana la tecnologia che ha creato, ma al tempo stesso è lui stesso a rischiare di disumanizzarsisenza rendersene conto. Infatti nel romanzo di Dick, l’uomo per mostrarsi superiore agli androidi ricorre ad uno speciale strumento attraverso il quale allena il cervello ad essere più empatico.
Come psicologo mi auguro di avervi lasciato più dubbi di quanti ne aveste avuti prima! Se così non fosse, vi saluto – ringraziandovi per l’attenzione – con una domanda. Oggi gli scienziati scommettono che ben presto si potrà rendere la tecnologia capace di riconoscere le emozioni umane, e su questo ci sono già prime applicazioni. In questo contesto, quale sarà il futuro dell’empatia?